Delhi, India
Non c’è anima viva sulla terrazza del Krishna Cafè. Il sole è nascosto dietro ad una nuvola e spero che ci rimanga, da qualche giorno è iniziato quel caldo sporco che ti appiccica addosso tutto, smog incluso. Bevo l’ultimo sorso di chai guardando il groviglio di gente, cani, mucche, tuk tuk e motorini che scorre rumoroso nelle strade di Paharganj.
Quei cazzo di clackson!
Spengo la sigaretta e prima di chiudere il mac salvo il testo della newsletter, la invierò dal futuro, quando sarò già a casa e tutto quello che è successo in questo viaggio inizierà a sembrare lo strascico di uno di quei sogni così vividi da far dubitare la realtà.
Cos’è la realtà in fondo?
Da quando ho iniziato le ricerche per il nuovo libro è una domanda che mi faccio sempre più spesso, ma la risposta continua a cambiare forma, e io con lei. Forse perchè non c’è una realtà, ce ne sono almeno 8 miliardi su questo pianeta, e sono tutte reali.
Scendo, pago, esco ed entro nella fiumana umana di Main Bazar Road. Zigzagando tra la folla—con auricolari e musica nelle orecchie, per non farmi sfondare i timpani da quei dannati clackson—raggiungo il mio hotel, mi faccio dare le valige lasciate in reception, chiamo un Uber e mentre aspetto rimango a guardare la strada brulicante di vita, che è sempre grande fonte d’intrattenimento da queste parti.
Un’altra India—la tredicesima—andata, un mese e mezzo volato troppo in fretta dentro un viaggio che aveva la morte come tema portante.
È successo tutto davvero?
A Varanasi—la città della morte, appunto—ho passato settimane seduta sul tappeto della casa colorata di due nuovi vecchi amici, a filosofeggiare sulla morte e sui misteri della vita con un Baba—o sadhu—canadese che cinquant’anni fa ha lasciato casa in cerca di Dio, si è ritrovato in India, si è fatto sadhu e non se n’è mai più andato.
I sadhu sono asceti induisti, uomini considerati santi che rinunciano alle “questioni terrene” e dedicano la propria vita alla ricerca spirituale, al divino, al raggiungimento della liberazione—moksha—dal ciclo di rinascite—samsara. Il mio Baba Dio non è sicuro di averlo trovato—lo chiama “The Question Mark”—e della morte ha comunque una paura fottuta, nonostante i cinquant’anni passati a contemplarla.
La me di qualche tempo fa sarebbe rimasta delusa da tutto ciò—da un cercatore che non ha trovato—ma la me di oggi ha gioito nel vedere l’umano dietro al santo.
A MacleodGanj—la culla “alternativa” del buddismo tibetano ai piedi dell’Himalaya—ho visto il Dalai Lama, un vecchietto piccolo e fragile, sorretto da due persone, uno per braccio, mentre raggiungeva la sua postazione, dove ha poi fatto un discorso un po confuso e sconclusionato, davanti ad una folla commuovente di devoti emozionati. Anche lui in fondo rimane semplicemente un uomo, con i suoi 90 anni addosso e la stessa destinazione finale di tutti gli altri: l’ignoto per eccellenza.
Che cosa c’è dopo la morte?
“Se vuoi capire meglio la morte dovresti fare un giro al Nirmal Hriday….”mi aveva detto Stefano nella sua casa colorata, dirottando così il mio viaggio.
A Calcutta ho fatto volontariato nella casa per morenti di Madre Teresa, un posto dove vengono accolte persone molto malate o in fin di vita, spesso letteralmente raccolte dalla strada, persone che non hanno più nessuno, abbandonate a se stesse: gli ultimi degli ultimi degli ultimi a cui nessun’altro ha voluto dare aiuto. E' stato tutto abbastanza forte, intenso, un po' surreale e un po hard-core, a tratti ripugnante, a tratti commuovente. Per dare un idea: nella stessa giornata mi è capitato di pulire/ spostare un cadavere, rasare a zero una donna che aveva i capelli pieni di vermi (e la scabbia), imboccare con le mani una signora cieca e sordomuta e avere una delle conversazioni più toccanti di sempre con una suora giovanissima che ha rinunciato a tutto—se stessa inclusa—dedicando la sua intera vita alla cura altrui.
Io invece non sono brava a prendermi cura degli altri—ho imparato da poco, pochissimo, a prendermi cura di me, figuriamoci—e farlo, anche se per una breve parentesi, mi ha messo di fronte a parecchi limiti, alcuni che sapevo di avere, altri di cui non avevo idea, e di cui mi sono vergognata.
Non sono andata a Calcutta spinta da bontà d’animo, ma perché sto scrivendo questo libro, perchè credo che certe cose—per poterne scrivere—non si possono capire con la teoria o l’intelletto, ma solo facendone esperienza diretta, mettendoci le mani dentro. Per capire davvero la parola privilegio—e quindi sentire davvero empatia—bisognerebbe venire qui—o in altri posti dove il privilegio manca, ce ne sono tanti, anche dietro casa—invece di indignarsi da dietro uno schermo ascoltando l’ennesimo influencer woky che nonostante non si sia mai mosso da casa crede di sapere tutto e di cambiare il mondo—col culo comodo sul divano—a colpi di retorica e infografiche, allontanandosi così ancora di più dalla realtà, andando a togliere ancora un po di umanità. È un errore sempre più comune, quello di vivere nel mondo ideale, invece che in quello reale. Ma la realtà è quella che è, è così com’è—non come “dovrebbe” essere—e riconoscerla fa tutta la differenza nel vivere una vita ben vissuta.
Il Nirmal Hriday è un posto in cui succedono cose che ancora faccio fatica a descrivere con le parole. Quello che ho sentito lì dentro però mi è molto chiaro. Ci sono andata per capire qualcosa in più sulla morte, e invece mi sono ritrovata a capire un paio di cose in più sulla vita, sull’umiltà, sulla compassione, sull'Amore
Ah l’Amore…
quel antico mistero inquantificabile, inspiegabile, incomprensibile, irrazionale e—più spesso che no—folle.
Cos’è l’amore? Di che materia è fatto? Da dove viene? Come si spiega?
Il mio treno di domande idiote viene bruscamente interrotto dal driver dell’Uber, che urla “Ma’am, Ma’aaaaaaaam” a squarciagola dal finestrino dell’auto, imbottigliata dall’altra parte della strada tra un corteo cantante di Hare Krishna, un camion straripante di foglie di paan e una mucca che cerca di mangiarsele. Prendo le mie borse—pesanti, si sono moltiplicate da quando sono arrivata—e salgo in macchina.
Uscire da Paharganj è sempre un terno al lotto: potrebbero volerci 10 minuti, potrebbe volerci un’ora. Oggi vale la seconda opzione. Previdente, sono in anticipo sulla tabella di marcia. Mentre l’auto è ferma nel traffico ne approfitto per registrare le stories di chiusura del viaggio, che come sempre posterò su instagram chissà quanti giorni dopo. Quando giro la camera su di me, per un secondo mi soprendo dall’immagine che ci vedo dentro: una ragazza, bambina, donna con la faccia stanca ma luminosa, il tilka—il pallino rosso che simboleggia il terzo occhi, attraverso il quale gli indù credono di poter vedere tutto ciò che non può essere visto attraverso i due occhi fisici—in fronte, il kurti—abito tipico indiano—con stampa block-print di fiori, bianco e rosa addosso.
Ti voglio bene, sai?
E capisco che si sta portando a compimento un processo iniziato qualche anno fa, a Bali, quando ho comprato un vestito giallo dopo anni che indossavo solo nero; quando piano piano ho iniziato a sentire il bisogno di schiarire, di colorare, il guardaroba e la vita, perchè l’oscurità aveva perso il suo fascino.
Durante questo viaggio—nonostante non sopporto fare shopping—ho comprato un sacco di vestiti indiani colorati. L'India fa parte di me da parecchi anni, la amo e la odio a fasi alterne, a volte contemporaneamente, la nostra è una danza ambivalente–scusate le rime—ma sono consapevole, ora più che mai, di doverle davvero tanto: perche, tra le tante cose che ha fatto per me questo paese, ha cambiato permanentemente il mio modo di vedere la vita e leggere la realtà. Mi ha insegnato a credere in un po di magia, a uscire dal razionale, ad avere ulteriore conferma che sotto sotto nessuno sa un cazzo e a sentire che—contro ogni logica—c’è qualcosa che mi sostiene, che ci sostiene, sostiene tutto. All’interno e all’esterno.
Ora voglio portarmi un po' di India addosso anche quando sarò a casa, così da riflettere un po' di quel che ho dentro anche fuori.
Oddio, sto tornando a casa
Accompagnata da un brivido di spavento, mentre gli ultimi scorci di Delhi scorrono dal finestrino dell’auto, mi arriva la botta di consapevolezza: sono arrivata alla fine.
La fine delle mie ricerche, la fine di questo lungo viaggio iniziato mesi fa, quando l’idea di questo libro mi ha trafitta come un fulmine, una mattina di Giugno sul Cammino di Santiago, mentre guardavo l’alba illuminare i campi di grano e i miei passi.
La fine di un avventura incredibile che mi ha portata in posti spesso surreali, a tratti psichedelici, dentro mondi ineffabili e altre dimensioni. Un viaggio che mi ha portata in posti del corpo, della mente, e dell’anima, che mai avrei pensato esistessero:
Il Cammino e la sua alchimia, una notte di presente eterno, l’Adesso, il vipassana nel monastero Buddhista e quei minuti di luce dorata, l’Amazzonia, gli sciamani, l’ayahuaska e le montagne guardiane delle Ande, la follia della guerra, la città della morte e la morte di Krafen—il mio bassotto killer a cui devo la vita—la miseria e la carezza di una vecchietta in fin di vita, una suora messicana, un monaco thailandese, un baba canadese, una partera andina, una sciamana della Selva. L’oscurità, la luce, la Paura, il coraggio, l’Amore, il Vuoto.
Che cazzo di viaggio è stato!
Credo di non aver ancora elaborato davvero tutto quello che è successo, ma ormai ho capito che elaboro scrivendo.
Sento di star cambiando pelle, di aver lasciato parti di me che non servivano più in ogni tappa di questa lunga ricerca, e inizio a rendermi conto che la me di prima e' morta. Una nuova me sta prendendo forma, come un bruco prima di diventare farfalla.
Ci sono momenti nella vita—ciclici, ahimè, perchè il cambiamento è il tessuto stesso di cui è fatta l’esistenza—dove bisogna trovare il coraggio di lasciar andare tutto quel che si crede di sè, per capire davvero chi si è. Non è piacevole, anzi, all’inizio è terrificante, perchè bisogna affrontare la cosa più spaventosa mai esistita, almeno per me: il Vuoto.
Oddio, il Vuoto
Mi ci sono trovata dentro tante volte nelle mie 9 vite, ma non sono mai riuscita a capire cos’era. All’inizio ci annegavo, poi ho cercato di riempirlo, di scapparlo, ma prima o poi si ripresentava, ed è sempre stata una tragedia. Ho sempre creduto di non aver la forza di affrontarlo, il Vuoto, ma oggi lascio andare questa credenza. Perchè il Vuoto è parte di me. Perchè forse il Vuoto non è il nulla, è il tutto, è tutto. È ciò di cui è fatto lo spazio, ciò che contiene l’universo intero. Tutto arriva dal Vuoto a pensarci: la vita, i pensieri, le idee, una nota, una goccia d’acqua. Noi stessi usciamo da questo mondo, letteralmente: appariamo nel mondo.
Dov’eravamo prima?
Il Vuoto ha a che fare con l’esistenza, ha a che fare con la coscienza, ha a che fare con me.
Ma quindi io chi sono?
Non credo di saperlo più chi sono, ma mi sento, sono.
Cosa sono?
Essenza. L’unica cosa che non segue le leggi universali del cambiamento: è la stessa di quando son partita, la stessa di quando ero bambina, la stessa di quando sarò vecchia. L’essenza sembra non cambiare mai.
E quindi chi è che cambia?
Credo di saperlo, ma non so spiegarlo.
Sto imparando—con fatica—a non dover rispondere a tutti i costi alle mie tante insulse domande, non con la testa perlomeno, perchè non tutto ha necessariamente vocabolario, non tutto ha necessariamente forma: certe cose non hanno argini, contorni o confini netti, certe cose sono indefinibili e indefinite per natura, mutabili, e—sempre, sempre, sempre—impermanenti.
Certe cose sono e basta: non si possono capire, si devono sentire.
Più spesso che no le domande stesse—o meglio, il processo che queste ci portano ad intraprendere—sono la risposta. Certo, bisogna farsi le domande giuste.
Quindi forse, invece di chiedersi “Cosa c’è dopo la morte?” sarebbe più utile innanzitutto accettarne l’esistenza—è parte della vita in fondo—e chiedersi invece:
“Cos’è la vita?”
In modo da non sprecarne nemmeno un attimo correndo dietro a ciò che la vita non è, a ciò che non ha davvero importanza. Contemplare la morte, capirne la natura, accettarne l’inevitabilità mi ha aiutata a dare ancora più valore e significato alla vita. E se ho imparato qualcosa in questi mesi, con questi viaggi, è che ciò che davvero ha importanza nella vita, ciò che davvero conta, ha sopratutto a che fare con—sorpresa, sorpresa—l’Amore. Quella parolaccia poco in trend come “essere” o “Dio”, parole così vaste e cariche che spesso vengono ridicolizzate, scartate, archiviate con l’etichetta “stronzata-inutile-che-non-mi-riguarda”.
Eppure ci riguarda tutti.
Riguarda tutto.
E quindi forse le mie non sono domande così idiote, dopo tutto. Forse sono le più importanti.
Non voglio tornare a casa
Mentre l’aeroporto di Delhi appare in lontananza sento una morsa allo stomaco, e una stretta al braccio. La riconosco subito.
Dannata stronza cagasotto, mollami!
È la Paura—quell’infame codarda—rieccola, la mia compagna di vita eterna. Mi dice di non salire su quell’aereo, di mandare tutto affanculo e rimanere in India, sparire, bruciare il passaporto. Ma la conosco ormai, so che sta solo facendo il suo show: non vuole che mi fermi, perchè sa che sono una drogata di nuovo, di vita e di movimento; sa che la cosa più difficile per una viaggiatrice è rimanere a casa; sa che casa, dopo un po che non mi butto in un altro mondo, diventa un posto soffocante, stagnante; ma sopratutto, sa che il confronto con la pagina bianca sarà sfiancante. E allora per incoraggiarmi all’autosabotaggio mi dice che non ho niente da dire, che quel poco che ho da dire è folle, che non sono capace, che scrivo male, che il primo libro l’ho scritto solo perchè c’era un lockdown globale e che non sarei mai più stata in grado di creare qualcosa stando ferma, mentre il mondo continua a girare veloce, senza di me.
Stronzate
Non la ascolto più da un pezzo, ho imparato a capirla—quella povera bambina terrorizzata—a dare senso alle sue sbroccate, ma solo ora capisco la radice di tutto: sta solo cercando di evitare la cosa che più teme. La Paura ha una paura fottuta del Vuoto.
Guardandola negli occhi le do una carezza, come quella che ho ricevuto da una vecchietta in fin di vita al Nyrmal Hrydai.
Non preoccuparti, andrà tutto come deve andare, mi fido della vita, mi fido di me
Me la scrollo di dosso e scendo dall’Uber. Chiudo la portiera, prendo le mie borse e mentre vado verso le porte dell’aeroporto saluto l’India.
Grazie. Ci rivedremo
È arrivata l’ora di fermarsi, per un po, il mondo può continuare a girare veloce per qualche mese. Io sarò comunque qui, sarò comunque me.
Oggi finisce un’avventura incredibile e domani ne inizia un’altra, dentro le pagine bianche di un libro. Un libro che sarà pieno di domande, di mondi, di parole straniere e di un po di magia. Un libro che—capisco solo ora—parla di qualcosa di cui mai mi sarei aspettata di scrivere:
L’Amore, e la sua mancanza.
E quindi, il Vuoto.
Un vuoto che non ho mai voluto affrontare del tutto, ma che è arrivato il momento di guardare in faccia. Una parola alla volta.
Love,
—S
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Grazie per il tuo momento di vista
Grazie per queste tue parole! Leggendole ho ripensato al libro "Educazione indiana", che forse conosci già. Buona strada!