Mi ci sono voluti (troppi) anni per capirlo, ma la vita in fondo è un immenso parco giochi…
Cammino per le stradine colorate di Malsaña e queste parole mi rimbombano dentro, le sento ronzare nelle cellule insieme a un senso di profonda—oddio—gioia.
Sono arrivata a Madrid alla fine di un’estate straripante: i 900 km verso Santiago, i 10 giorni di Vipassana in Thailandia, i fantasmi della Cambogia; mi sembrano passati anni da Giugno e mi sento cresciuta di altre 3 vite. È da quando ho finito il cammino che sono in questo stato di presa-bene, stranamente persiste; senza motivo, senza preavviso, mi ritrovo spesso invasa da ondate di gioia e meraviglia nei posti e nei momenti più improbabili. Momenti come questo: l’odore di churros nell’aria, una coppia di anziani mano nella mano, un cane scodinzolante che annusa la gonna della libraia…
Dettagli.
Che bello vederli, che fortuna essere qui, che dono essere vivi.
Dettagli che tempo fa non avrei notato, perché sarei stata troppo presa dai film egoriferiti che la mia mente mandava in onda 24/7. A volte quei film erano horror, con sfondo l’inferno.
La scia del profumo di churros mi interrompe i pensieri, la seguo fino ad un cafè, carino ma anonimo, all’angolo di Calle de San Andrès; mi siedo ai tavolini a bordo strada e ordino—ovviamente—churros y chocolate. Mentre annoto il pensiero di prima sul mio moleskin carta da zucchero una signora accanto a me parla rumorosamente al telefono agitandosi e un ragazzo in motorino suona aggressivamente il clacson imprecando ripetutamente contro il furgone davanti, che si era fermato a scaricare un pacco. Vedo una ragazza avvicinarsi al mio tavolo: ha più o meno la mia età, i vestiti neri un po sgualciti e sul viso indossa l’inconfondibile look di chi non riesce a scappare dalla morsa dell’eroina. Mi chiede una moneda con la voce bassa e roca; nel mio spagnolo improbabile le dico che non ho moneta ma che se vuole le pago un bocadillo, mi guarda con occhi vuoti e se ne va.
Quante persone vivono all’inferno.
Per la maggior parte della gente—da questa parte di mondo, sia chiaro—l’inferno non è un posto fisico, ma un luogo interiore, spesso fatto di passato o futuro e di gabbie che ci si costruisce da sè. L’inferno, più spesso che no, si trova tra i confini della mente ed è governato dalla tirannia dell’ego.
La vita è dura—questo è innegabile—e il mondo sa essere crudele e brutale: le ingiustizie ricorrono, gli amori finiscono, la gente muore. Ma va così dall’inizio dei tempi, e continuerà ad andare così. La realtà—giusta o ingiusta che sia—è quella che è: impermanente, mutabile, deperibile, incontrollabile e in continuo cambiamento. Deprimente e pure un po terrificante eh?
E infatti non ci piace sentircelo dire, facciamo resistenza davanti a queste ovvie inevitabilità, non le accettiamo e, anzi, ci attacchiamo sempre più forti a desideri e avversioni (“vorrei che M mi amasse”, “voglio avere quella cosa”, “non voglio che questa cosa vada così” etc), generando così il nostro inferno: la sofferenza.
Uno dei detti buddhisti più conosciuti dice: “Il dolore è inevitabile, la sofferenza è opzionale”, a primo impatto sembra una bestemmia no? Come osano quei piccoli insensibili anaffettivi in accapatoio arancione dire che sono io a scegliere di soffrire?! Una volta la pensavo così anch’io; col buddhismo ho ancora qualche divergenza, ma dopo averla conosciuta a fondo, La Sofferenza, e dopo anni di India e centinaia di ore passate ad ascoltare e leggere grandi pensatori come Krishnamutri, Vivekananda, Alan Watts &Co, ho una visione molto diversa della vita ora, e quella frase la capisco davvero (non con l’intelletto ma con le viscere, perchè ne ho fatto esperienza in prima persona).
Faccio un esempio concreto, lo prendo in prestito dal monaco che faceva lezione—alle illegalissime 5.30 di mattina—nel monastero buddhista dove ho fatto il vipassana: una persona può averti fatto del male in passato, e nessuno può negare che ci sia stato un dolore reale in quel momento, ma se a 10 anni di distanza stai ancora soffrendo per quell’evento sei tu che ti stai facendo del male adesso. Quindi smettila, punto. Ha abbastanza senso sulla carta, no? Eppure è così difficile da mettere in pratica.
Nessuno vuole soffrire ovviamente e proprio qui sta uno dei—tanti—grandi paradossi della vita: per evitare la sofferenza finiamo per crearne ancora di più. Scappando, evadendo e anestetizzandoli, il dolore e la sofferenza in realtà si amplificano. Sembra controproducente ma l’unico modo per spegnere la sofferenza è buttarcisi dentro: prima di tutto bisogna osservarla, poi bisogna accettarla, e, infine bisogna attraversarla, sentirla, immergersi nelle sue profondità più arcane per poi uscirne—vivi—dall’altro lato. Certo serve una consapevolezza di sè e della realtà abbastanza sviluppata per riuscire a farlo, ma, se si è disposti a prendersi la faticosa responsabilità di sè stessi e della propria vita, se ne esce sempre, e pure un po più forti, un po più saggi, un po più umani di prima. Parola di chi c’è stata laggiù.
Di inferni ne ho visti parecchi in questi 35 anni, di alcuni ero solo testimone, di altri protagonista. Sono un acquario, e—per voleri cosmici—l’ottimismo non mi è uscito sempre facile: ho una tendenza naturale al fatalismo, una propensione per l’apocalisse e sono un equilibrista degli estremi; in quella che ormai sembra un’ altra vita—una vita in cui mi vestivo sempre e solo di nero e grigio—ho conosciuto la depressione (fortunatamente non troppo a lungo), mi sono abbandonata alla dipendenza (xanax, una bestia subdola dall’apparenza innocua che mi ha lobotomizzata per mesi), e ho pensato più volte di smettere di esistere, una volta ci ho pure provato (chi ha letto il mio libro sa che se sono ancora qui lo devo sopratutto agli occhi di Krafen, il mio bassotto killer). Diciamo che ho ceduto spesso al fascino del buio e delle ombre.
Ma le ombre esistono solo quando c’è luce, e la luce, per quanto debole, è sempre stata la mia stella polare, la direzione da seguire mentre barcollavo o strisciavo nel buio che avevo attorno, o più che altro dentro. L’ho capito solo recentemente che, così come il buio, anche quella luce ce l’avevo dentro, da sempre. Ce l’abbiamo tutti, ricevuta in dote alla nascita, proprietà dell’ anima.
Il problema è che la società in cui viviamo non ci insegna a coltivarle o nutrire ne la luce nè l’anima, anzi, i pilastri su cui è fondata sembrano esser fatti apposta per farci allontanare da entrambe ed aggravare le ombre. Ci viene fatto credere che la vita deve avere un determinato aspetto (fare soldi, fare carriera, avere successo, followers, un “lavoro vero” e sicuro, sposarsi, fare figli, etc etc), ci viene insegnato che la vita è bianca o nera, e che tutto va categorizzato e etichettato così: giusto O sbagliato, buono O cattivo, bene O male. Ma se si guarda la realtà per quella che è diventa subito chiaro che la linea tra l’uno e l’altro non è quasi mai netta: l’esistenza è una questione molto più complessa di un monocromatico bianco O nero. Siamo luce E ombra, e la vita è un gioco di armonia degli opposti: gioia e dolore, anima e ego, spiritualità e materialismo, libertà e controllo, piacere e dolore, online e offline, solitudine e compagnia, l’io e l’altro, mondo interiore e mondo esteriore, vita e morte. Opposti che in realtà sono facce della stessa medaglia: perchè non c’è l’uno senza l’altro.
E non è solo retorica spirituale questa, è realtà incredibilmente reale, ed è ovunque. L’ho visto con i miei occhi: il mio lavoro mi ha porta spesso in paesi “difficili”, dove mi trovo a testimoniare delle realtà a volte atroci, a volte di una meraviglia disarmante. Spesso queste realtà coesistono contemporaneamente, nello stesso posto. Perché la vita, in fondo, è tutta un gran paradosso. E forse proprio per questo andrebbe presa più come un gioco che come un inferno, o un campo di battaglia.
“El chocholate y los churros señorita!” il cameriere li appoggia sul tavolo con un sorriso—un bellissimo sorriso—riportandomi qui.
“Gracias!” non faccio in tempo a rispondere che ho già la bocca piena.
Ho il paradiso in bocca.
“¿Qué hay escrito allí?” chiede indicandomi il braccio.
“Ehm, ingles?” chiedo con occhi imploranti, non avendo capito un cazzo.
“The tattoo, what does it mean?”
“Ah, it’s a sanscrit word: Līlā. It means divine play“ (play in questo caso ha due significati: commedia e gioco)
“Nice” replica con un marcato accento spagnolo, poi mi sorride di nuovo congedandosi e passa al tavolo accanto al mio a prendere l’ordine.
Detta in parole molto spicce: secondo l’induismo, la vita e la realtà che noi viviamo sono una creazione che Brhaman (l’universo, il Sè supremo) mette in atto per intrattenersi. La vita quindi altro non è che Līlā: un gioco divino, una commedia divina, e per questo non bisognerebbe prenderla troppo sul serio.
Līlā me lo sono scritto indelebilmente addosso l’estate scorsa per non dimenticarmene mai; ero in Vietnam, avevo appena finito il primo Cammino—che mi aveva letteralmente rimessa in piedi dopo essermi lasciata annientare dall’ennesima relazione andata in merda—e arrivata a Santiago ero piena di energia, avevo nuova vita che scorreva tra le vene. Il cammino, oltre ad un grande senso di pace e forza, aveva portato parecchie rivelazioni, una in particolare: la mia relazione era stata una grande farsa, uno shit-show su tutti i piani, al punto che non valeva la pena prenderla sul serio; starci male era quindi inutile. Ho dato uno sguardo alla mia vita e ho contato le benedizioni in essa: un lavoro che mi sono inventata e che amo e migliaia di persone che lo apprezzano, la libertà di fare quello che voglio quando voglio, persone stupende che amo intorno e sparse per il pianeta, il dono della creatività, una anima sveglia. Sticazzi se ho un cimitero di relazioni fallite alle spalle!
Mi ricordo esattamente il punto in cui mi trovavo—sudata fradicia e stanca morta dopo 26km sotto il sole cocente della Galizia, su uno stradone non degno di nota—quando mi sono rotta definitivamente i coglioni della sofferenza e ho capito che la leggerezza—da non confondere con la superficialità—è una delle qualità più fondamentali e utili per navigare bene questo strano posto chiamato vita.
Mi sta esplodendo la vescica.
“¿dónde está el baño?” chiedo al solito cameriere.
“Downstairs chica” ha davvero un bel sorriso, onesto, genuino, luminoso, anche lui sembra essere in presa-bene persistente.
Finita la colazione—divina—entro nel cafè, scendo le scale e l’atmosfera anonima cambia completamente: il sotterraneo è illuminato da neon gialli e rossi, il pavimento è fatto di sabbia. Percorro un corridoio pieno di specchi e lucine spaziali rosse, blue e verdi, su uno degli specchi c’è una sorta di ologramma e un buco illuminato con scritto “tirar”, apro la porta e mi ritrovo al buio; una musica da circo divampa a tutto volume, procedo a tentoni nell’oscurità e trovo la porta del bagno, entro, e…
WTF!
mi ritrovo catapultata in un universo parallelo, parecchio psichedelico fatto di specchi, di neon, di rosso e di musica da circo sempre più alta. Rimango un attimo spiazzata e poi mi metto a ridere ad alta voce, stupita e intontita da tutta quell’inaspettata stravaganza.
Che figata, la vita può sempre sorprenderti!
“La vita può sempre sorprenderti”. È un’altra frase che può sembrare una bestemmi alle orecchie di chi vive ancora all’inferno. Perchè all’inferno sembra che niente possa più succedere e che la vita sarà sempre una merda. Ma è matematica in fondo: se il cambiamento è l’unica cosa che non cambia mai, la vita prima o poi cambia, e—sorpresa, sorpresa—lo fa molto più in fretta se TU cambi, o per lo meno se impari a cambiare prospettiva. Non è questione di vedere il famoso bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno, basta vederlo come un bicchiere che può essere riempito o svuotato.
Sono passati 10 anni dal mio primo vero inferno—la depressione, la dipendenza, il voler smettere di esistere—ce ne sono stati altri, ciclici, quasi sempre hanno avuto a che fare con relazioni sbagliate—il mio unico punto debole—e il nonamore; Sono scesa agli inferi per l’ultima volta due anni fa, è stato più breve e meno drammatico delle altre volte, ma è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso: riemersa dagli inferi ho deciso con ogni fibra di consapevolezza in me che non ci sarei mai più tornata laggiù.
Mi sono rimboccata le maniche e—grazie alla terapia, al percorso spirituale intrapreso anni fa, alla meditazione, alla scrittura, agli amici veri, alla natura, alle camminate e alla determinazione testarda nella ricerca di pace, serenità e significato—ho mollato del tutto il buio e ho scelto definitivamente la luce.
Le mie ombre le ho accettate, le ho integrate, e poi le ho archiviate. Ho fatto un sacco dei cose nuove: ho iniziato a smettere di vestirmi di nero e ho riempito il guardaroba—e la vita—di colori; ho smesso di puntare il dito all’esterno e ho rivolto lo sguardo all’interno; ho smesso di subire i vuoti delle mie mancanze e ho riconosciuto il miracolo delle mie abbondanze; ho smesso di regalare tempo e energie alle persone che non mi nutrivano l’anima e ho coltivato quelle che lo facevano; ho smesso di avere aspettative e ho accettato che la realtà è quella che è. Ma sopratutto ho smesso di prendermi sul serio e di prendere gli altri sul serio, ho imparato a lasciar andare il controllo insieme a tutto quello che non mi faceva bene: affidando l’accadere al vento, consegnando il domani al cielo, facendo pace col non sapere come andrà, e ho iniziato a farmi delle gran risate davanti all’ironia della vita. Una vita che può sempre sorprenderti, una vita che invece di una partita a campo minato in qualsiasi momento può trasformarsi una partita a campo fiorito o un giro di giostra in un immenso coloratissimo parco giochi. E’ questione di prospettiva.
Mi gira la testa, è da 15 minuti che giro e rigiro per girare video per instagram in questo bagno-astronave. Mi sono pure fatta un servizio fotografico degno dei tempi in cui—in un’altra ‘altra vita’—facevo foto alle modelle sui set di NYC; perchè—come on—questo bagno è troppo figo per non essere sfruttato a scopi artistici.
Guardo l’orologio,
Merda, è tardi!
Sono venuta a Madrid perche mi hanno invitata all’inaugurazione della mostra di Sebastiao Salgado, un semi-dio del fotogiornalismo che ha fatto del lavoro importante e incredibile e che ammiro molto. Lo conoscerò stasera e sarà sicuramente una serata interessante, ma credo che quello che più mi ricorderò di questo viaggio sarà l’odore dei churros, e il mix di meraviglia e stupore che ho provata varcando la soglia di questo bagno assurdo. La gioia in fondo è una cosa semplice.
Esco dal cafè, saluto il cameriere con il bel sorriso e mi ributto nelle strade colorate di Malsaña. Negozietti vintage ogni due metri, pasticcerie rosa cupcake, musica che esce da bar popolati di vecchietti con la loro caña in mano.
Mi fermo a guardare una vetrina, attirata da un ciondolo a forma di cuore sacro. Mi scappa l’occhio sulla mia immagine riflessa nel vetro: vedo una ragazza con addosso un vestito giallo e 9 vite, e finalmente me ne rendo conto:
Sono luce.
Love,
—S
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